Il gioco che ha tirato un calcio ai sogni

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Sono nata e cresciuta nel paese del calcio. Dove il pallone era considerato alla stregua di un credo. Il calcio in quegli anni scandiva le nostre domeniche, quando si rientrava dal mare e capitava di stare ore in coda nella “Serra do Mar”. Allora, a tenerci compagnia in macchina, c’era la radiocronaca calcistica: un’infilata di parole dette senza punteggiatura, pronunciate senza pause, fino a far perdere il fiato. E che culminava in quel inconfondibile “gooooool” urlato in infinite declinazioni di “o”. Attendevo che la palla entrasse in rete solo per sentire esplodere quell’urlo. E a volte noi bambini facevamo a gara a chi riusciva a sostenere il fiato più a lungo, accompagnando il radiocronista nella sua folle allegria.

Il calcio era raccontato così, senza immagini. Che a pensarci bene non erano per nulla necessarie. Perché l’entusiasmo e l’emozione di quelle radiocronache infatti coinvolgevano tutti i nostri sensi. Era difficile rimanere indifferenti. Perché quelle voci erano capaci di seguire anche i piedi più veloci e talvolta imprendibili. Ascoltare il racconto del gol perfetto e attendere con gioia l’esplosione della torcida. Questo era il calcio per me da bambina.

Di molti giocatori, poi, non conoscevo nemmeno i volti. Anche perché le partite in tivù erano riprese da obiettivi meno potenti, le inquadrature erano  fatte da lontano. Era tutto più rozzo, se vogliamo. Come a calzare i piedi di quei campioni non erano scarpe personalizzate dai colori fluo. Non si vedevano nemmeno i tagli di capelli insoliti che si vedono oggi nelle teste dei giocatori. Le teste servivano per segnare, così come i piedi. Oggi, invece, i giocatori tendono a voler spesso essere dei personaggi, prima ancora che degli atleti. Ma non sono più dei miti. Almeno non per me.

Quando ero bambina la magia del calcio riusciva perfettamente perché nasceva nelle viscere dello stadio, tra i piedi di quei miti senza logo e nei tamburi ritmati della torcida. E viaggiando sulle onde delle frequenze radio, era capace  di contagiare milioni di brasiliani. Ci sentivamo parte di un unico e meraviglioso momento sportivo invidiato da tutto il mondo. Giocatori, torcida e popolo erano un tutt’uno.

Oggi il calcio si è purtroppo ridotto a un immensa macchina da soldi che, ben prima della violenza negli stadi, ne ha fatto svanire la magia. Quella magia capace di far sognare i bambini, come facevo io ogni volta che ascoltavo le radiocronache diventate ormai leggenda.

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Una risposta a “Il gioco che ha tirato un calcio ai sogni”

  1. Consuelo,
    come è purtroppo vero ciò che conclude il tuo post…..
    io non sono mai stato tifoso, a parte del Napoli per campanilismo; ma con tutte le schifezze che si sentono sul calcio, io non capisco come la gente/i tifosi possano ancora scaldarsi per una partita, è tutto finto precotto falso….altro che sport…
    un bacio
    Marco

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