Due buoni motivi (e una copertina) per leggere “L’estate del coniglio nero”

Non so se faccio bene a scegliere i libri dalle copertine. Il fatto è che le recensioni sono noiose, la classifiche farlocche e i gruppi lettura ti fanno sentire ignorante come una capra. Si potrebbe ricorrere al consiglio dell’amico che legge un sacco, ma si tratta pur sempre di un filtro esterno. Per assumermi appieno la responsabilità della scelta, dunque, faccio da sola. Il più delle volte, in questo modo: prima guardo i colori e l’effetto d’insieme della grafica,  poi leggo il titolo (anche se di quello non sempre mi fido), infine vado a sbirciare il retro. Una volta lì, leggo le prime due righe della sinossi e le prime due della biografia. Se qualcosa mi piglia, compro. Detta così sembra macchinosa e superficiale, ma è un’operazione che dà buoni risultati e che richiede circa otto secondi. 

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Di L’estate del coniglio nero, la cosa che mi ha convinta a spendere 10, 90 euro è stata la seguente frase nella biogafria dell’autore: “Terminata la scuola si è trasferito a Londra per cercare di diventare una rock star. Dopo aver lavorato in uno zoo, un crematorio e un ufficio postale, ha cominciato a fare quello che gli riusciva meglio: scrivere libri per adolescenti.” Questo a proposito della vita di Kevin Brooks. Chi di noi non voleva diventare una rock star? O chi di noi non ha mai pensato di lavorare in un crematorio? Ok, lasciamo stare il crematorio e teniamoci buona la rock star. Veniamo al dunque.

L’estate del coniglio nero è un noir per “giovani adulti”. Adolescenti, post adolescenti, pre adulti e curiosi, insomma. Ma questo non significa che i personaggi intercalino ogni due parole con un “cioè” o che dicano “scialla” ogni volta che devono dire “stai tranquillo”. Non è una questione di forma, ma di aderenza. I ragazzi non sono dei cretini, sanno perfettamente quando il libro pesca a piene mani nel loro mondo. 

Brevemente la trama: Pete, il protagonista, da che voleva starsene solo “disteso in camera a guardare il soffitto” riceve una telefonata di Nicole, che lo invita ad una rimpatriata tra vecchi amici prima che le loro strade si separino definitivamente. Pete è titubante perché una vocina dentro di lui gli dice che è meglio rimanere “disteso in camera a guardare il soffitto”. Alla fine accetta e decide di portarsi dietro anche Raymond, un ragazzo che pare vivere su un pianeta tutto suo e che ha un coniglio nero in giardino che gli parla.

Tipo strano Raymond, che fuso in Pete, fa saltare fuori un unico personaggio molto empatico, una sorta di anti eroe che calamita subito chi legge. Pete, Raymond, Eric, Pauly e Nicole si ritroveranno nel loro vecchio covo e ci daranno dentro con alcool e droghe leggere. La serata proseguirà al luna park e finirà con la misteriosa scomparsa di Raymond. Ma quella stessa notte si perderanno le tracce anche di Stella Ross, celebrità locale e figlia di un batterista famoso, che si è guadagnata il sopranome di “bomba quindicenne” a suon di scandali e selfie. Ovviamente tutti penseranno che le due sparizioni siano collegate. Tranne Pete, l’unico che conosce veramente Raymond e al quale è molto legato. Tra gli amici cominceranno a venire a galla rancori, segreti e gelosie mai superate. Alla fine l’enigma delle due sparizioni si risolverà (anche se solo in parte) grazie alla tenacia di Pete.

Il libro è avvincente. La tensione si mantiene sempre alta e rimbalza tra i fatti e gli stati d’animo. Ad essere sincera trovo che i romanzi young adult sortiscano l’effetto “analisi”, perché ti fanno regredire nel tempo e dialogare con ciò che si è stati.  Malinconie, paranoie, senso di inadeguatezza sono solo alcuni dei sentimenti che ci portiamo dietro e che permeano il mondo dei protagonisti. Noi lo sappiamo già, siamo grandi ormai: non ci sono soluzioni edulcorate, quest’è. Pete lo imparerà sulla propria pelle. Così come imparerà che gli amici cambiano, anche da un’estate all’altra. 

Pete è un personaggio molto azzeccato, fa presa subito. Da che fissa il soffitto e si trascina per casa nell’indolenza del fine scuola, fino alla trasformazione personale, che altro non è che il tentativo di comprendere cosa è giusto e cosa non lo è. E poi, per gli occhi più fotografici, non guasta l’atmosfera dark, a tratti cinematografica. Come quella del luna park, ad esempio. Aggiungo molto volentieri altri due buoni motivi per leggerlo: il primo è l’assenza di aggettivi di troppo e l’altro il mancato cliché, scontatissimo, che vuole per forza il conflitto generazionele tra genitori e figli. Quello non c’è. 

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